La storia del Rocca di Cerere UNESCO Global Geopark

  • Anno di riconoscimento/ Year of recognition as Geopark: 2001
  • Autorità responsabile/ Responsible Authority: Società consortile a.r.l. Rocca di Cerere Geopark
  • Regione/ Region: Sicilia
  • Provincia/ Province: Enna
  • Superficie/ Area: 129.800 Ha
  • Altitudine/ Altitude: 219 – 1.192 m.s.l.m.
  • Comuni/ Municipalities: 9 – Enna, Aidone, Assoro, Calascibetta, Nissoria, Leonforte, Piazza Armerina, Valguarnera, Caropepe, Villarosa
  • Popolazione/ Population: 95.071

Il territorio del Geopark si estende nell’area centrale della Sicilia, sui Monti Erei, nei territori dei comuni di Enna, Aidone, Assoro, Calascibetta, Nissoria, Leonforte, Piazza Armerina, Valguarnera e Villarosa.

Il nome “Rocca di Cerere” è stato scelto in ragione dell’antica dedicazione di questo territorio alle divinità ktonie. Già i popoli indigeni della Sicilia antica, Sicani e Siculi, adoravano figure connesse con la Terra e con il sottosuolo. Questi culti possono essere riassunti nel nome latino di Cerere, la greca Démeter, nume tutelare dell’agricoltura, venerata sulla più alta cima della città di Henna, la Rocca di Cerere, appunto.

Il nome, dunque, rispecchia la stretta relazione, stabilita nel tempo, tra la Madre Terra e l’uomo.

Geologicamente l’area copre la parte centrale dell’Avanfossa sicula tra la catena Appennino-Magrebide e l’Avampaese Ibleo ed è caratterizzata da un’ampia diversità geologica.

A nord l’area presenta depositi sia trassici che flisciodi con delle formazioni quarzarenitiche, mentre a sud prevale la presenza dell’altipiano gessoso-solfifero creato dalla crisi del Messiniano 5,96-5,33 milioni di anni fa. Tale crisi si verificò a causa di un repentino prosciugamento del Mediterraneo con la conseguente ciclica deposizione di potenti livelli di evaporiti. La crisi si concluse con il ritorno del mare nel periodo Zancleano.

La conformazione del territorio è tipicamente collinare-montagnosa, con oltre il 10% di superficie situata oltre i 700 m, la cui massima elevazione (1.192 mslm) si raggiunge in cima al M. Altesina.

Racchiuso dunque da una sorta di perimetro montuoso, il comprensorio offre allo sguardo un paesaggio decisamente ricco di suggestioni, costellato da valli, fiumi, torrenti e laghi (tra cui il Lago di Pergusa, unico lago naturale siciliano e luogo del mito di Proserpina), antichi centri arroccati e colline che digradano verso le estese pianure orientali che, nel corso dei secoli, sono stati teatro di un’intensa attività umana e le cui testimonianze, oggi, definiscono il patrimonio storico-culturale del Geopark. Basti pensare alla presenza di due tra le maggiori aree archeologiche classiche dell’intero Mediterraneo, quali la Villa Imperiale Romana del Casale e la Polis Greca di Morgantina, oltre ad altri 150 siti archeologici tra cui il villaggio Bizantino di Canalotto e le Necropoli di Malpasso e Realmese risalente all’età del rame e del bronzo. Il territorio vanta, inoltre, l’unico Parco Archeologico Minerario dell’isola: Floristella-Grottacalda, numerosi altri giacimenti di archeologia industriale e ben 4 aree protette di notevole pregio storico-naturalistico (R.N.S. Lago di Pergusa, R.N.O. Monte Altesina, RNO Rossomanno-Grottascura-Bellia e RNO Monte Capodarso e Valle dell’Imera meridionale)

Accanto alle visite ai numerosi musei (Treno museo di Villarosa, Paese museo di Villapriolo, Museo Archeologico di Aidone, Museo Etnoantropologico e della Civiltà contadina di Nissoria, Mostra Permanente della Civiltà mineraria di Piazza Armerina, etc.), e ai diversi castelli, fortificazioni, priorati e chiese di epoca federiciana e più in generale medievale (Castello di Lombardia, Torre Federiciana, Castello Aragonese, Castello Svevo, Castello Gresti, etc.), il territorio offre anche la possibilità di partecipare a manifestazioni religiose come i riti della Settimana Santa di Enna, a rievocazioni storiche come il Palio dei Normanni di Piazza Armerina, oltre che alle numerose feste tradizionali come le Tavolate di S.Giuseppe imbandite con del pane modellato in forme simboliche e rituali destinato al consumo dei visitatori (tradizione antichissima risalente alla cultura ellenica e ai rituali legati al culto di Demetra/Cerere), oppure di praticare attività sportive in ambiente naturale (sci nautico, vela, canoa, free climbing, mountain bike, bird watcing, etc.) o di assaggiare i numerosi presidi tipici come il Piacentinu ennese, l’Olio extravergine d’oliva, la Pesca e la Fava larga di Leonforte, la Lenticchia nera, i dolci e i salumi.

Senza l’aiuto della sistematica, la Natura rimarrebbe confusa ed indistinguibile nelle sue forme, come merci in un confuso grande magazzino. Ogni cosa noi si possa desiderare è là ma non sappiamo come trovarla

Oliver Goldsmith

Ridurre in categorie le diversissime forme della Natura è stato sempre un anelito dell’uomo di scienza, ma ogni categorizzazione dovrà essere ottenuta con una necessaria riduzione della molteplicità degli aspetti. Per tentare di dare una facile lettura degli aspetti ecosistemici presenti nel vasto territorio del Geopark abbiamo voluto così riunire in categorie quegli ambienti naturali che più frequentemente si incontrano passeggiando in queste contrade.

L’altimetria dell’area del Geopark va dalle vallate del Dittaino e dell’Imera meridionale, che corrono verso il mare a poche centinaia di metri di altezza slm alla cima dell’Altesina, l’antico Mons Aereus, posta a 1192 m slm.

Questa altimetria fa sì che il paesaggio comprenda diverse fasce vegetazionali che vanno da quella termomediterranea a quella della Foresta latifoglie decidua.

Partendo dalle lande più basse ed insolate, nelle aree di valle del territorio, tra i campi e le aree di calanchi, possiamo trovare ancora i segni della vegetazione originaria della fascia Termomediterranea. Questa vegetazione era caratterizzata in queste aree da specie sclerofille abituate alla arsura della lunga estate siciliana. Dominanti dovevano essere il carrubo (Ceratonia siliqua) e l’oleastro (Olea oleaster), miste ad altre specie sia arboree che soprattutto arbustive quali il lentisco (Pistacia lentiscus) ed il terebinto (Pistacia terebinthus), oggi meno frequenti ma tipici di questa formazione sono anche il corbezzolo (Arbutus unedo) la fillirea (Phillirea latifolia e P. angustifolia), ma anche la palma nana (Chamaerops humilis) l’unica palma autoctona della Sicilia.

Un tempo la fascia mediterranea caratterizzata dalla presenza di una copertura forestale a dominanza di leccio (Quercus ilex) ed in associazione con altre essenze latifoglie doveva rappresentare la nota più diffusa del paesaggio dell’area, ma a partire dall’età classica ed in particolare dall’età romana, l’esigenza della produzione cerealicola, testimoniata sia dagli scritti di Cicerone che dalle innumerevoli cisterne frumentarie ritrovate in tutte le aree urbane antiche, dovette innestare un processo secolare di disboscamento e di isolamento della vegetazione arborea nelle aree più acclivi e impervie. D’altro canto, la frequenza del pascolo e la copiosità delle greggi e degli armenti contribuirono a impedire l’innovazione naturale della copertura arbustiva ed arborea sino all’azzeramento delle potenzialità della stessa in gran parte del territorio vallivo e collinare.

Oggi il paesaggio è in vaste aree dominato dalla estensiva presenza di campi di grano o di colture rotazionali strettamente legate allo stesso cereale, quasi che la scelta mitica della madre del cereale, Cerere – Demetra, avesse monopolizzato la capacità produttiva di queste terre.

Il climax fondamentale della vegetazione mediterranea italiana è quindi quello del bosco di leccio (Quercus ilex) nel cui sottobosco predominano gli arbusti sclerofillici e diverse specie di piante erbacee rampicanti e di lianose come la salsapariglia (Smilax aspera) o la fiammola (Clematis flammula).

Nelle parti più calde il leccio può lasciare il posto alla sughera (Quercus suber), un’altra quercia sempreverde caratterizzata da un notevole sviluppo della parte suberale della corteccia.

Il corteggio vede diverse specie mischiarsi al leccio soprattutto nelle aree in cui il manto è meno fitto, tra queste sono frequenti sia il pero mandorlino (Pyrus amygdaliformis) che il perastro (Pyrus piraster), che in primavera sono tra le prime rosacee a guadagnarsi il manto fiorito.

Le erbacee a portamento più basso sono più rare quando la vegetazione è in condizioni climatiche, in quanto la scarsità dell’illuminazione al suolo ne impedisce lo sviluppo, ma proprio per la grande degradazione che la formazione forestale ha dovuto sopportare negli ultimi duemilacinquecento anni, non di rado le essenze arboree hanno lasciato il passo a quelle erbaceo-arbustive ed oggi è più facile trovare una formazione a macchia caratterizzata da un intrico vegetazionale non di rado impenetrabile che la gente dei luoghi indica con il nome di sciara dall’arabo Sha’ra = boscaglia.

Tra la vegetazione della macchia si ritroveranno rovi (Rubus spp.) rose e salsapariglia, il raro pigamo di Calabria (Thalictrum calabricum), e il cisto con diverse specie.

Più in alto, a chiudere le fasce vegetazionali presenti nell’area del Geopark, troviamo la parte più termofila della Foresta latifoglie decidua qui dominata dalla roverella (Quercus pubescens sensu latu).

In associazione con essa si trovano in natura sia le due specie di Pyrus di cui si è detto avanti, che la coronilla (Coronilla emerus), il citiso a foglie sessili (Cytisus sessifolius), il prugnolo (Prunus spinosa), la rosa sempreverde (Rosa sempervirens) e la canina (Rosa canina). Più raro è l’alaterno (Rhamnus alaternus).

Lo strato erbaceo in questo caso concentra il suo maximum vegetazionale durante i primi tempi della primavera, quando ancora le roverelle non hanno messo le nuove foglie ed il sole consente lo sviluppo delle specie più piccole. In questo periodo nella querceta sarà possibile incontrare delle fioriture di anemone (Anemone hortensis) e di ciclamino (Cyclamen repandum). Tra le rocce e vicino ai cisti crescerà poi la felce aquilina (Pteridium aquilinum) e nelle aree più umide l’ombelico di Venere (Umbilicus rupestris).

La fauna italiana è costituita da circa 57.422 specie di cui 52.168 invertebrate e 1.254 vertebrate, rappresentate da una grande varietà di endemismi. La Sicilia comprende un notevole contingente delle specie che compongono la Fauna italiana, soprattutto in ragione della posizione geografica dell’isola e delle minori isole che ne compongono l’arcipelago.

La Sicilia ha subìto e subisce quei condizionamenti che l’isolamento attiva nei confronti dei diversi taxa. La speciazione, che avviene con una maggiore velocità a causa del mancato flusso genico tra le popolazioni, nel passato, ha fatto sentire i suoi effetti con la comparsa di specie molto interessanti. Tra queste vanno certamente citate alcune di quelle appartenenti ad un periodo caldo dei tempi passati, come nel “Milazziano”. In questo periodo, in Sicilia vissero l’elefante nano del Falconeri (Elephas melitensis o Elephas falconeri), un pachiderma, manifestante il fenomeno della riduzione della taglia, sino a presentare individui alti solo 40 centimetri al garrese, un ghiro gigante (Leithia melitensis) ben più grande dell’odierno abitatore dei boschi detto dai siciliani “surci giacaluni”, ma anche ippopotami, coccodrilli e diverse specie di ungulati i cui resti sono talvolta rimasti nei depositi delle grotte naturali del territorio del Geopark.

Dalla fine dell’ultima glaciazione la fauna della Sicilia si è stabilizzata nelle odierne condizioni generali con elementi sia boreali e paleartiche, che mediterranee e microasiatiche, caratterizzata soprattutto nella erpetofauna. Fondamentalmente la fauna siciliana, nelle sue specie maggiori per dimensioni, mantiene una certa appartenenza all’area paleoartica. Le specie dei mammiferi, ad esempio, sono pressoché tutte europee, dominate (ab antiquo) dalla presenza del lupo (Canis lupus) in seguito estinto, e comprendenti ungulati quali il cervo (Cervus elaphus hippelaphus) e il capriolo (Capreolus capreolus) anch’essi estinti. Forse solo un roditore, l’istrice (Histrix cristata), rappresenta la provenienza più africana ed orientale per quanto diffusa nell’ambito del bacino del Mediterraneo.

Diversa è la situazione che si ritrova nelle specie minori: infatti, non è raro riconoscere sia endemismi estremamente puntuali che provenienze africane, non solo tra insetti ed artropodi in generale, ma anche tra i rettili che, sopravvissuti alle glaciazioni, sono riusciti a mantenere una colonizzazione dell’isola e del suo arcipelago a testimonianza di passate ere.

La complessità del territorio e la presenza su di esso di ambienti non solo diversi per le diverse condizioni edafoclimatiche ma anche per l’uso storico dei territori, fanno sì che in questa porzione della Sicilia sia estremamente difficile descrivere la presenza faunistica.

Certamente vanno considerate alcune caratteristiche generali della presenza animale quali, ad esempio, il posizionamento dell’isola ed in particolare di questa parte di essa sulla principale rotta migratoria paleartica, così come, qui ed anche nel resto dell’isola, la vicinanza con il mondo dell’Africa settentrionale da un lato e dell’Europa dall’altro, ha consentito nel tempo lo stabilizzarsi di popolazioni tipiche delle faune dei due ambiti continentali o addirittura una speciazione di alcune delle specie un tempo provenienti da uno dei due ambiti.

D’altro canto l’enorme peso che l’uomo ha esercitato sulle popolazioni stesse è stato tale che oggi la fauna appare privata di alcune presenze fondamentali dal punto di vista della organicità dei diversi ecosistemi. La mancanza del Lupo, estinto per mano umana tra il 1930 ed il 1960 o dei grandi ungulati, fatti fuori definitivamente durante il secolo XIX, non sono altro che la punta dell’iceberg del degrado che l’uomo ha innescato verso le comunità naturali.

Le popolazioni più deboli sono probabilmente scomparse in tempi talmente lontani da non consentire la loro scientifica registrazione. Non sappiamo, ad esempio, se in Sicilia fossero presenti in natura anfibi urodeli (anfibi con la coda come la salamandra e il tritone), sappiamo per certo che scientificamente non ne sono mai stati registrati, ma la presenza, anche nel territorio del Geopark, di diverse contrade con toponimi quali Tino del Drago lungo il fiume Salso Cimarosa, ma anche Gorgo del Drago o simili, fa pensare che un tempo le pozze create dai fiumi siciliani dovessero ospitare questi simpatici esseri così fragili rispetto l’inquinamento delle acque.

l bacino di Caltanissetta, esteso più di 5.000 km2 e comprendente le province di Enna, Agrigento e Caltanissetta è il più vasto territorio al mondo in cui affiora una successione di rocce sedimentarie, di origine evaporitica, denominata dai geologi Serie Gessoso-solfifera.

In questa formazione rocciosa, intercalato o sottostante i Gessi, si trova lo zolfo.

Lo zolfo, in latino sulfur, in arabo sufra (giallo) è un elemento chimico con simbolo S e numero atomico 16. È un non metallo inodore, insapore, avente densità 1.960 kg/m3 e durezza 2, fonde a 115,21 °C. È un elemento essenziale per tutti gli esseri viventi, perché componente di amminoacidi, proteine ed enzimi. Questo elemento è di color giallo pallido, morbido, leggero, e ha un odore caratteristico quando si lega con l’idrogeno. Brucia con fiamma bluastra che emette un odore caratteristico e soffocante, dovuto all’anidride solforosa (SO2) che si forma come prodotto di combustione. Lo zolfo è insolubile in acqua. È presente sotto forma di solfuri e solfati in molti minerali, e si ritrova allo stato nativo in prossimità dei vulcani attivi, da questa caratteristica viene il suo nome comune inglese brimstone (brim = orlo).

Popoli antichi, tra cui gli egiziani, lo adoperavano per le sue proprietà terapeutiche e come pigmento per i colori. All’inizio del XIII secolo mescolando lo zolfo con carbone e salnitro, si ottenne una miscela, la polvere pirica, che fu utilizzata in guerra fino al 1900 come esplosivo.

In medicina lo zolfo trovava diversi impieghi era, inoltre, utilizzato nella preparazione degli zolfanelli (fiammiferi di legno con la testa di zolfo), ed in agricoltura è un efficace antiparassitario nella lotta contro lo oidio, fungo parassita della vite.

Lo zolfo si usa in molti processi industriali, di cui importante è la produzione di acido solforico (H2SO4) per batterie e detergenti. Lo zolfo è poi elemento essenziale per la vulcanizzazione della gomma. Si usa anche come fertilizzante, insetticida, per sbiancare la carta, in fotografia come fissante per stampe fotografiche e come conservante nella frutta secca. Estratto e lavorato sin dall’antichità, così come dimostrato dai ritrovamenti di monte Grande lungo la marina di Cannatello (AG) e, in maniera più precisa dal ritrovamento di una Tabula sulphuris in contrada Aquilia di Montedoro (CL) con l’iscrizione “EX PREDIS M. AURELI COMMODIAN” riferibile al periodo che va dal 180 al 191 d.C. Dopo una stasi medievale lo sfruttamento sistematico del minerale si ebbe però solo durante la rivoluzione industriale per produrre l’acido solforico, ingrediente di base dell’industria chimica. Ciò rese necessario cavare lo zolfo in profondità, poiché i giacimenti esterni presto si esaurirono.

Per l’area del geopark abbiamo una interessantissima notizia riportata da Vincenzo Littara, un autore del 1588, nel suo Aennensis Historiae, il quale alla fine del Primo libro, nel capitolo 11 così recita: Si estrarrebbe anche lo zolfo, si estrarrebbe anche altrove il sale, soprattutto presso Papardura, se il popolo ennese avesse ottenuto il permesso regio.

Con il secolo XVII le necessità belliche resero impossibile continuare a ignorare i grandi quantitativi di zolfo del sottosuolo siciliano e iniziarono le prime semplici estrazioni.

Inizialmente il modo di lavorare nelle zolfare (pirrere dal francese cava di pietra, in quanto le prime erano a cielo aperto) era piuttosto primitivo e senza nessuna pianificazione: individuata una vena di zolfo si scavavano delle buche attraverso le quali i minatori penetravano nelle viscere della terra e continuavano a scavare seguendo la massa minerale. Le discenderie erano ripide e all’interno si dipartivano gallerie in tutte le direzioni.

Questo modo di procedere creava diversi problemi strutturali e spesso i minatori rimanevano uccisi dal crollo delle volte delle gallerie. Una volta estratto, il materiale veniva condotto all’esterno, portato a spalla dai carusi, giovani dagli 8 ai 14 anni, il cui carico, pesante almeno 25 kg, li rendeva deformi e rachitici. I carusi erano ceduti, spesso sin dalla nascita, ai picconieri in cambio del soccorso morto, un prestito in denaro che il ragazzino avrebbe restituito lavorando sodo. Il debito rendeva il giovane schiavo del picconiere dal quale subiva pesanti angherie. Cavato e portato in superficie lo zolfo nativo, trovandosi misto a gesso, calcare, marna e argilla, doveva essere separato per fusione.

Il primo mezzo utilizzato per la fusione fu la calcarella, un fosso dal diametro di circa 1-2 metri, con il piano inclinato in modo da permettere la colata dello zolfo fuso verso un’apertura detta morte, dove si faceva solidificare. Nelle calcarelle circa il 60% dello zolfo andava sprecato poiché si volatilizzava sotto forma di anidride solforosa con grave inquinamento delle campagne. Per puro caso si scoprì che ricoprendo la fornace le perdite di minerale si riducevano, diminuendo anche la produzione dei gas. Furono così realizzati i calcaroni o calcheroni, forni circolari a piano inclinato, dove il carico doveva essere disposto con perizia, lasciando degli spazi vuoti per permettere lo scorrimento del materiale fuso verso la morte e prevedendo degli sfiatatoi per favorire la combustione.

Una volta stipato, il materiale veniva ricoperto da rosticcio (ginisi), prodotto di risulta delle precedenti fusioni, e dopo un certo periodo di tempo un minatore esperto (ardituri), poggiando l’orecchio sul calcarone si rendeva conto se tutto il materiale fosse fuso, avrebbe aperto quindi la morte e lo zolfo liquido fuoriusciva. Il minerale fuso veniva, quindi, raccolto in contenitori di legno dalla forma di un tronco di piramide rovesciata detti gàvite qui il minerale veniva fatto solidificare per raffreddamento ottenendo dei lingotti detti balate. La polvere di zolfo veniva impastata in panotti ed utilizzata per rivestire i calcheroni, in modo da non sprecare nulla.

In seguito, per diminuire la dispersione di anidride solforosa nell’ambiente, che danneggiava le colture e creava seri problemi alla salute degli operai, si sperimentò di affiancare tra loro diversi calcheroni, in modo da sfruttare il calore prodotto tra forni adiacenti nei quali il primo ad essere acceso veniva detto motrice.

Nacquero così i forni Gill, dal nome dell’ingegnere che li progettò nel 1859. Questi venivano costruiti in gruppi di 2, 4 o 6 celle comunicanti tra loro e sormontate da una cupola dalla quale si caricava il materiale di riempimento. Questo metodo consentì il recupero dell’80% di zolfo e la riduzione di vapori tossici immessi nell’atmosfera.

Nella miniera di Grottacalda fu sperimentato un forno a sei celle, sestiglia, in cui i gas caldi della prima cella venivano distribuiti alle celle poste a destra e a sinistra della motrice per avviare la fusione, altre due celle erano destinate al riscaldamento mentre la sesta veniva svuotata. Nei primi anni del ‘900 lo sviluppo tecnologico in Sicilia faceva passi da gigante ma subito dopo la Seconda guerra mondiale in America fu messo a punto il metodo Frash, che comportava l’estrazione del materiale mediante trivellazione. Una speciale sonda costituita da tre tubi concentrici perforava il terreno. Nel primo tubo veniva immesso vapore a 170 °C che fondeva lo zolfo, nel secondo tubo veniva immessa aria calda a pressione per far risalire, dal terzo tubo, lo zolfo fuso. Il minerale giungeva così in superficie, fuso e puro, e il tutto avveniva senza pericolo di crolli nelle gallerie, né esalazioni del famigerato grisou. Non era necessario realizzare gallerie, pozzi di manovra, ascensori e si evitavano le immissioni di anidride solforosa in atmosfera. Il metodo purtroppo non era applicabile in Sicilia dove le masse solfifere erano arborescenti e non compatte come quelle della Louisiana e del Texas. Stroncate dalla concorrenza americana le zolfare siciliane si avviarono presto alla chiusura. In provincia di Enna l’ultima miniera, Floristella, chiuse i battenti nel 1986.

Il Rocca di Cerere Geopark ricade in gran parte nel Bacino di Caltanissetta un bacino sedimentario subsidente durante il Neogene ed il Pleistocene inferiore, ubicato al fronte della catena sicula. Sotto il profilo stratigrafico, le successioni affioranti nel bacino sono costituite da diversi cicli sedimentari neogenico-quaternari separati da discordanze principali. Il termine più profondo della successione è la Formazione Terravecchia, costituito da argille grigio-azzurre e sabbie cui si intercalano lenti arenacee e conglomeratiche. Tale successione è ricoperta in discordanza dalla serie evaporitica Messiniana depostasi in accordo a due eventi evaporitici distinti:

  • il complesso evaporitico inferiore costituito da Tripoli, Calcare di Base e Gessi
  • il complesso evaporitico superiore costituito in prevalenza da una alternanza di gessi, silt argillosi e diatomiti su cui poggiano localmente ed in discordanza calcari di facies lagunare.

La successione pelagica dei Trubi (Pliocene inferiore) poggia sui sedimenti della serie evaporitica ed è seguita verso l’alto da sequenze calcarenitico-sabbiose plio- pleistoceniche. Del tutto estranei a questo contesto e traslati dalla tettonica i due sill diabasici del Trias che testimoniano dell’apertura della Tetide.